Miei cari amici e carissime amiche di Flannery,
come curatrice di questo blog letterario nei giorni scorsi mi sono sentita interpellata da numerosi lettori e lettrici nonché da alcuni dei nostri collaboratori affinché si realizzasse un post dedicato all’elezione del nuovo pontefice Francesco I e dopo un primo momento di perplessità, poiché il nostro blog, come sapete, si occupa prevalentemente di letteratura, di fronte ai testi che già arrivavano spontaneamente in redazione, ho deciso di pubblicare i vari pensieri, riflessioni e considerazioni in versi e in prosa pervenuti in questi giorni.
Ringrazio quanti di voi hanno partecipato a questa bella iniziativa e invito chi ancora desidera farlo a inviare un proprio testo, che potrà essere inserito e aggiunto agli altri dal momento che il post, aperto solo oggi, sarà visibile e raggiungibile a tempo indeterminato, per cui è sempre possibile mandare un proprio contributo.
Colgo l’occasione, a nome mio e di tutti gli amici e le amiche di Flannery, per augurarvi una lieta Pasqua!
Maria Amata Di Lorenzo
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“LA MIA GENTE È POVERA E IO SONO UNO DI LORO”
La strada di Jorge: da Buenos Aires al mondo
Il primo Papa giunto dalle Americhe è il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, 76 anni, arcivescovo di Buenos Aires dal 1998. È una figura di spicco dell’intero continente e un pastore semplice e molto amato nella sua diocesi, che ha girato in lungo e in largo, anche in metropolitana e con gli autobus.
«La mia gente è povera e io sono uno di loro», ha detto una volta per spiegare la scelta di abitare in un appartamentino e di prepararsi la cena da solo. Ai suoi preti ha sempre raccomandato misericordia, coraggio e porte aperte. La cosa peggiore che possa accadere nella Chiesa, ha spiegato in alcune circostanze, «è quella che de Lubac chiama mondanità spirituale», che significa «mettere al centro se stessi». E quando cita la giustizia sociale, invita a riprendere in mano il catechismo, i dieci comandamenti e le beatitudini. Nonostante il carattere schivo è divenuto un punto di riferimento per le sue prese di posizione durante la crisi economica che ha sconvolto il Paese nel 2001.
Nella capitale argentina nasce il 17 dicembre 1936, figlio di emigranti piemontesi: suo padre Mario fa il ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupa della casa e dell’educazione dei cinque figli.
Diplomatosi come tecnico chimico, sceglie poi la strada del sacerdozio entrando nel seminario diocesano. L’11 marzo 1958 passa al noviziato della Compagnia di Gesù. Completa gli studi umanistici in Cile e nel 1963, tornato in Argentina, si laurea in filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel. Fra il 1964 e il 1965 è professore di letteratura e psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fé e nel 1966 insegna le stesse materie nel collegio del Salvatore a Buenos Aires. Dal 1967 al 1970 studia teologia laureandosi sempre al collegio San Giuseppe.
Il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote dall’arcivescovo Ramón José Castellano. Prosegue quindi la preparazione tra il 1970 e il 1971 in Spagna, e il 22 aprile 1973 emette la professione perpetua nei gesuiti. Di nuovo in Argentina, è maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel, professore presso la facoltà di teologia, consultore della provincia della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio.
Il 31 luglio 1973 viene eletto provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Sei anni dopo riprende il lavoro nel campo universitario e, tra il 1980 e il 1986, è di nuovo rettore del collegio di San Giuseppe, oltre che parroco ancora a San Miguel. Nel marzo 1986 va in Germania per ultimare la tesi dottorale; quindi i superiori lo inviano nel collegio del Salvatore a Buenos Aires e poi nella chiesa della Compagnia nella città di Cordoba, come direttore spirituale e confessore.
È il cardinale Quarracino a volerlo come suo stretto collaboratore a Buenos Aires. Così il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno riceve nella cattedrale l’ordinazione episcopale proprio dal cardinale. Come motto sceglie Miserando atque eligendo e nello stemma inserisce il cristogramma ihs, simbolo della Compagnia di Gesù. È subito nominato vicario episcopale della zona Flores e il 21 dicembre 1993 diviene vicario generale. Nessuna sorpresa dunque quando, il 3 giugno 1997, è promosso arcivescovo coadiutore di Buenos Aires. Passati neppure nove mesi, alla morte del cardinale Quarracino gli succede, il 28 febbraio 1998, come arcivescovo, primate di Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere dell’Università Cattolica.
Nel Concistoro del 21 febbraio 2001, Giovanni Paolo II lo crea cardinale, del titolo di san Roberto Bellarmino. Nell’ottobre 2001 è nominato relatore generale aggiunto alla decima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dedicata al ministero episcopale. Intanto in America latina la sua figura diventa sempre più popolare. Nel 2002 declina la nomina a presidente della Conferenza episcopale argentina, ma tre anni dopo viene eletto e poi riconfermato per un altro triennio nel 2008. Intanto, nell’aprile 2005, partecipa al conclave in cui è eletto Benedetto XVI.
Come arcivescovo di Buenos Aires — tre milioni di abitanti — pensa a un progetto missionario incentrato sulla comunione e sull’evangelizzazione. Quattro gli obiettivi principali: comunità aperte e fraterne; protagonismo di un laicato consapevole; evangelizzazione rivolta a ogni abitante della città; assistenza ai poveri e ai malati. Invita preti e laici a lavorare insieme. Il 13 marzo 2013 è stato eletto al soglio di Pietro e ha assunto il nome di Francesco I.
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HO CONOSCIUTO UN UOMO
di ALESSANDRA CORSINI
Ho conosciuto un uomo che era un Papa.
Gli capitò questo mestiere in un giorno d`inverno di nuvole e di pioggia; il camino accanto alla cupola si mise a fumare di bianco e così gli toccò la mantellina e la croce grossa, ma lui, la croce, non la volle d`oro perché i suoi poveri avevano la fame nel piatto e la speranza sfilacciata.
Era un tipo che veniva dalla fine della terra e se ne andava in giro con il suo amico Cristo a vedere come si fa a mettere la felicità negli occhi della gente che a volte sembra manchi proprio tutto. Mancano i profumi del cibo e dell`amore, i tempi buoni della pace, la grazia di una casa, di un figlio o di una madre, la fortuna di un buon corpo e la consolazione per aggiustare la fatica. Allora quel Francesco che era Papa si mise gambe in spalla e si buttò là in mezzo a tutta quella gente, perché era un figlio della terra, uno come noi, uno tra milioni, che quando ci batte il cuore suoniamo più delle campane, e ci abbracciava e ci baciava proprio come facciamo noi, il bacio sulla guancia e l’augurio di un buon pranzo o di un buon giorno, che sono queste le parole di famiglia, che a stare tutti vicini ci si sente meno soli.
Va in giro con le scarpe, quelle comode, e con i sogni da bambino, un uomo uomo, senza fronzoli né orpelli, con il sole in sagittario e il cuore dentro al cuore, che inciampa pure nel vestito perché corre prima dalla Madonna e poi dal sarto.
Allora a questo uomo io gli posso pure dire: Francesco quando mangi a casa mia? Che ci dividiamo quel che c’è così facciamo comunione. Lo so che tu ci vieni, perché sei fratello e padre, ma se ti invitiamo tutti ingrassi e poi come fai a scappare dalle guardie del corpo per venire ad abbracciarci?
Sai quello che la televisione non può raccontare? Quel silenzio durante l’Angelus che ci ha coperto tutti, concepiti di Spirito e di bellezza.
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I SEGNALI DEL TEMPO
di LAURA ALBERICO
Leggere gli ultimi avvenimenti è come ripercorrere a ritroso la storia dell’uomo, spirito e materia, ideale e reale, il male e il bene che si uniscono e diventano il filtro di conoscenza e ragione, fantasia e concretezza di un mondo che nonostante tutto e senza avviso riesce ancora a sorprenderci. L’elezione del nuovo papa ha per incanto strappato il velo della nebbia che impedisce agli occhi di distinguere forme e contorni di persone e cose, la strada per camminare verso la giusta e necessaria direzione. Quando tutto sembra perduto, inutile e forse impossibile, i segnali del tempo diventano simboli di cambiamento, una inversione di rotta che scuote le coscienze e invita a ritrovare il vero significato della vita e del suo divenire.
Guardare in alto dove le comete asteroidi si avvicinano sempre di più alla terra e ci ricordano un cammino di scoperta e rivelazione, aspettare la fumata bianca che scioglie l’incertezza e il dubbio, tutto questo invita alla riflessione e alla introspezione, un percorso che pone al centro dell’interesse l’uomo e la sua capacità di tendere alla perfezione e alla conoscenza per diventare, nonostante tutto, migliore e unico pur nella diversità.
Cogliere i segnali del tempo significa ricostruire la propria storia personale, ritrovare il valore dell’autenticità e delle cose semplici. Una testimonianza che è anche una sfida all’inaridimento dei sentimenti e al meccanicismo della vita quotidiana, quella vita che spesso diventa troppo fragile e che viene travolta dall’indifferenza e dall’abbandono e sembra oggi risplendere soltanto di luce riflessa.
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E COME UN PADRE TU TRASMETTI AMORE
di PAOLO MAJERLE
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Fumata bianca e ora…
squilli di tromba e maestosi annunci
luccicanti gemme e preziose vesti
solenni processioni e formali segni
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Ma sei arrivato tu umile Francesco
che con povere parole arricchisci i cuori
e ti avvicini agli animi con semplici gesti:
che smisurata grandezza nelle piccole cose.
.
Ci affidiamo a te, come figli a un padre
che fa di povertà la più gran ricchezza
e di umiltà una luce che ridesta il cuore
sei la fiamma che ci riscalda l’anima
e come un padre tu trasmetti amore.
.
Eri seduto… in disparte e senza attesa
ma Qualcuno t’ha chiesto di avanzare
una stagione nuova sta per iniziare
che parli di umiltà, perdono e tenerezza.
.
Sei venuto… come la brezza a primavera
e con parole inebrianti come i fiori
perché tu ascolti e ci fai sentire amati
e sai che è questo a conquistare i cuori.
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Insegnaci a riconoscere il valore
di un cammino spesso avvolto nella nebbia
e a dare un sentimento alle parole
insegnaci il senso vero dell’amore.
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PAPA FRANCESCO
di NUNZIO MAROTTI
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E tornano a sperare i poveri
all’annuncio sulla piazza.
E’ uomo venuto da lontano
eppure impregnato
della forza e della gioia
del vino italiano.
E dell’umile forza del santo d’Assisi
il mite seguace
di Cristo povero
fratello di tutti.
Francesco,
il primo di una serie,
semplici vescovi
servi d’umanità
dimentichi di sé
spogli di potere
e di averi.
Padre di una moltitudine
che rinnova la terra
con il martirio
cinto il grembiule
col bacio di Cristo
sulle piaghe del mondo.
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UN PASQUALE PENSIERO
acrostico di MARIELLA BETTARINI
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Un pasquale pensiero – oggi – domenica –
Non può prescindere dalla gioia
Più grande – da una pienezza vera – offerta
Ai nostri cuori – ch’è quella di conoscere –
Sapere che Cristo Salvatore è risorto e che –
Qualunque sia l’universale assenso – niente potrà
Umiliarne l’eccelsa Verità.
Assaporiamo dunque l’immenso dono di
Letizia pasquale e portiamone non
Egocentrica gioia – bensì fraterna e universale. E mentre
Pasqua giunge parimenti esultiamo: ci è dato in questi giorni
Esemplare Fratello e Padre:
Nuovo Papa Francesco – veramente pasquale:
Siamone degni – stiamone (uniti) al suo limpido – quasi
Insperato evangelico darsi –
E da Lui e da qui ripartiamo – vivi d’una nuova Speranza – d’un
Rinnovato mutuo Amore – d’una Fede che sembra ritrovare
(Ora e per sempre) un credibile ardore
***
PAPA FRANCESCO
di LAURA AVALLE
.
Cambia il vento sulla cupola di San Pietro:
una scarica di elettricità pari a quella di un fulmine,
presagio di rinascita e di rivalsa
di chi,
da troppo tempo,
era condannato ai margini di una società che non perdona.
E’ IL NUOVO CHE AVANZA,
che porta con sé la speranza
di un mondo migliore
abitato da persone migliori:
dalla chiesa alle piazze,
dall’Italia all’Argentina,
lungo tutti i fusi orari.
E’ l’alito divino
che soffia anche nella natura e negli animali:
una raffica dolce,
che libera del superfluo
per lasciare spazio all’amore perché
NESSUNO
rimanga più ultimo
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PAPA FRANCESCO
di TITTI RIGO
.
Hai nel sorriso la gioia, nello sguardo la dolcezza
Ti presenti con vesti essenziali
La tua parola è pace
(di cui già si avverte il profumo)
‘Custodire’ il dono prezioso che è la Terra
Abbracciare il Creato, tenerlo tra le mani
Sentire la Vita come un soffio del cielo
L’aria è più grande, un raggio di luce apre il cuore
Camminare senza paura
Procedere nel Bene spontaneamente e con fiducia
Il pastore dei giusti è arrivato
E noi l’attendevamo
Benvenuto Francesco
Che ci esorti a pregare
Messaggero di Dio –
Voce di una Madonna
piena di grazia, e benedetta.
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CUSTODIRE NELLA TENEREZZA
la prima omelia del suo pontificato
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza.
Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1).
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l’amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.
Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!
La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!
E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!
Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!
Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio.
Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato!
Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! Amen.
Francesco
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UN MONDO DI ORFANI CHE SOGNANO LA CAREZZA DI UN PADRE
di MARIA AMATA DI LORENZO
Quel giorno di metà marzo che ha fatto entrare la primavera nei nostri cuori, l’avete sentito anche voi?
Con l’anima chiusa in una bolla di inquietudine e di attesa, quel giorno ci siamo portati sulla soglia dell’invisibile, in una piazza gremita di persone come noi, con gli occhi rivolti a un comignolo che fumava ostinatamente contro il cielo piovigginoso di Roma, fumava un calore bianco, e in quel bianco c’erano tutti i colori della nostra vibrante speranza.
A volte i sogni nella vita si realizzano, lo sapete? Io ne avevo uno. Ne avevo uno nel cuore da quasi dieci anni, da quando cioè avevo scoperto per caso (ma poi esiste davvero il caso?) che a Buenos Aires c’era un “cura villero”, un prete della baraccopoli, molto attento ai poveri, dallo stile di vita umile, spirituale e austero. Un gesuita argentino che fino al 13 marzo 2013 quasi nessuno conosceva fuori del suo Paese ma il cui nome e cognome io portavo tenacemente nel cuore: Jorge Mario Bergoglio.
Non avevo mai visto un mio sogno avverarsi, fino a quella sera di marzo. Io sognavo di vedere padre Jorge sul soglio di Pietro, era un dono che sognavo per il mondo, perché sapevo che il mondo aveva bisogno di lui, aveva bisogno della sua luce, della sua fiamma.
Conoscevo la sua umiltà, la sua profonda dedizione ai poveri, la sua vita di preghiera, la dolcezza del suo cuore. Desideravo che fosse papa già nel precedente conclave del 2005 e, quando la sera del 13 marzo scorso ho visto affacciarsi il protodiacono con il nome del nuovo pontefice, ve lo confesso, ho trattenuto il fiato per un tempo che m’è parso infinito e poi, con il cuore che mi rullava nel petto come un tamburo, quando ho sentito le prime parole dell’Habemus Papam mi è bastato udire Giorgio, soltanto Giorgio, in latino, per capire in un istante che era Jorge e allora sono scoppiata in un pianto dirotto.
Che giorno importante è stato quello, ma che giorno ancora più importante è stato quel lontano 21 settembre 1953 quando un ragazzo di poco più di 16 anni entrò nella Chiesa di San Giuseppe a Buenos Aires per una fugace visita al Tabernacolo e sentì nel suo cuore in modo chiaro e ineludibile la chiamata al sacerdozio.
Quel giorno, proprio quel giorno molto lontano, ci veniva dato un padre.
Un padre le cui parole – tutte le sue parole pronunciate con la sua voce calma e pacata dalla calda cadenza spagnola – sono stille di dolcezza che scendono nei cuori infreddoliti e desolati di tanti uomini del nostro tempo.
Noi siamo i figli e i nipoti del Novecento, un secolo che ha seppellito i padri. Ma l’averli seppelliti non ci ha reso più liberi. Non ci ha reso felici, ci ha reso solo più soli. Ci ha reso degli orfani.
Il senso del nulla che ossessiona molti nostri contemporanei, su cui soffia impetuoso da tanto tempo il vento gelido della secolarizzazione, è la tragica risultante di un materialismo consumista che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse di felicità, lasciando la maggior parte di noi ai bordi di un deserto, psicologico e morale.
È il deserto dell’amore distrutto, della vita che non dà barlumi. Il deserto dei nostri cuori inariditi, impoveriti dal disamore, resi più chiusi e più duri dal dolore e dal risentimento.
La scienza e la tecnica e neanche la psicologia sono stati capaci di fornire una spiegazione esauriente alle domande fondamentali che da sempre ci assillano: chi sono io e perché vivo; in altre parole qual è il senso della vita, come sciogliere il suo mistero, perché si sta al mondo, e se c’è un fine in tutto questo, uno scopo, una destinazione.
Ma noi, che siamo esseri umanamente finiti, aneliamo all’infinito di cui le nostre anime sono impastate, non possiamo accontentarci di minutaglie, di eventi minimi, per dare un significato che illumini la nostra esistenza.
Credere all’incredibile. Per noi significa credere che Dio non solo esiste ma ci è padre e come un padre ci ama. Questa è la cosa più difficile per noi. Per tutti noi. Per me e per te. E’ come affacciarsi su un grande abisso di cui non si conosce la profondità e che a guardarlo ci dà un senso di vertigine.
È un mistero che non riusciamo a comprendere, che forse non comprenderemo mai, ma che tuttavia ci libera dal nostro narcisismo e ci dona lo stupore di sentirci amati oltre ogni merito, facendo esperienza della nostra creaturalità.
C’è un vecchio midrash, un racconto rabbinico, che dice: “Un principe era lontano da suo padre, a cento giorni di cammino. I suoi amici allora gli dissero: Torna da tuo padre. Ed egli rispose: Non posso, non ne ho la forza. Allora suo padre gli mandò a dire: Torna finché puoi, e io ti verrò incontro per il resto della strada…”
Ecco, credo che noi lo stiamo sperimentando. Qualcuno ci sta venendo incontro per il resto della strada.
Qualcuno che ci fa sentire la nostalgia di quell’abbraccio che abbiamo sempre rifiutato, quel tuffo nel grembo del Padre sempre differito e mai accolto, a cui abbiamo invece preferito le luci ingannevoli e fredde di un paese lontano che però non ci ha regalato quella felicità che ci prometteva ma solamente l’immensa, spaventosa libertà degli orfani.
“El cura”, lo chiamavano quando girava per le strade polverose di Buenos Aires, “il prete”. E, da papa, Jorge Mario Bergoglio non è e non sarà altro che questo: un prete.
Cioè un padre.
Un padre è ciò di cui noi abbiamo bisogno, e in tanti l’abbiamo capito quel 13 marzo, vedendolo affacciarsi con il suo “buonasera” sull’immensa piazza brulicante di gente.
Un padre che ci parli con la lingua della tenerezza, che ci mostri il volto di quell’amore che non abbiamo conosciuto mai. Un padre che ci regali quella carezza che non ritroviamo più se non nell’albeggiare di un sogno.
Ma questo sogno, oggi, si avvera.
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